
Ho le braccia macchiate di lividi. Mi disturbano quelli su polsi e mani: suggerisco sempre la vena nell’incavo del braccio sinistro ché pare un oleodotto, perché i prelievi sulla mano?
…Ceci n'est pas un blog de cuisine
Ho le braccia macchiate di lividi. Mi disturbano quelli su polsi e mani: suggerisco sempre la vena nell’incavo del braccio sinistro ché pare un oleodotto, perché i prelievi sulla mano?
…Ogni mattina una mamma si sveglia e sa di dover correre più veloce dello stereotipo per sopravvivere al carico mentale. Ogni mattina un papà si sveglia e sa che dovrà sbracciarsi per essere tenuto in considerazione.
C’è un abuso della parola “mamma” che mi fa ribollire il sangue e ruotare la testa come Regan MacNeil quando riceve la benedizione durante l’esorcismo. Mi provocava un fastidioso prurito mentale ben prima della nascita del Piccolo Sabaudo e con il suo avvento si è evoluto in nevrosi quando ho iniziato ad interessarmi alla puericultura, scoprendo che i riferimenti smodati alla componente genitoriale femminile non sono (solo) causati dalle famiglie stesse, ma anzi vengono rafforzati dall’abuso fatto da chi nel settore ha una voce, come pediatri o riviste redatte da professionisti della prima infanzia.
Non credo esista mamma che non si sia sentita investire almeno una volta del carico esclusivo nella gestione dei figli. Come direbbe la madre di Manzoni, dalle alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, si affida tutto alla mamma seppur sia fatto osceno.
Nonostante possiamo far rappare un dispositivo elettronico chiamato Alexa, la mentalità sociale legata alla crescita di un figlio si basa ancora sul presuppostoconcetto che, in una coppia madre-padre, le capacità genitoriali della donna superino quelle dell’uomo, o che sia quest’ultimo a vestire i panni del genitore irresponsabile. E attenzione che non mi riferisco alle circostanze nella formazione e crescita di un bambino che, al netto del supporto psicologico fondamentale del papà, richiedono il monopolio della mamma come accade durante la gestazione o l’allattamento al seno; ma di tutte quelle capacità d’azione sviluppate e ottimizzate con la pratica, quali possono essere il cambio del pannolino o la stimolazione ludica del bambino.
Quando ero incinta pensavo non avrei sofferto del gigantesco carico mentale della parola mamma. Ero ben consapevole degli ambiti in cui sarei stata insostituibile e che il resto avrebbe subito una ripartizione del 50%, variabile al bisogno, tra me e il padre del Piccolo Sabaudo. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il sistema italiano ahinoi patriarcale con cui siamo cresciuti, e più volte di quante vorrei ammettere mi sono impantanata nel dubbio che la mia condotta non fosse all’altezza di una mamma, sebbene non abbia mai subito discriminazioni. Il fatto è che la “condotta” era la cena in centro a un quarto d’ora da casa con un’amica, o accogliere un sabato pomeriggio libero invece che in famiglia, non esattamente la vacanza improvvisata a Cancun a far serata al Cocobongo. Quelle stesse evasioni del padre di mio figlio che non hanno mai fatto dubitare del suo buon operato di papà.
Ci vorranno ancora anni – ad oggi oserei dire molti DECENNI – prima di poter raggiungere una cultura familiare e sociale senza differenze di ruolo basate sul sesso dei componenti, ma a quel traguardo ci si arriverà con piccole accortezze che siano fondamenta per ciò che costruiremo.
Il mio umile contributo è quello di togliere un po’ di carico mentale alla parola mamma: ci si rivolga più ai genitori, che alle sole madri, per dare lo stesso valore ai padri che fanno i padri e per dare uno scappellotto a quelli che si crogiolano nei sospirati eh ma la mamma. Scandalizziamoci per una madre lavoratrice con vita mondana quanto per un padre lavoratore con egual socialità; ma che dico, scandalizziamoci meno per madri e padri che cercano di tenere in vita il loro essere donne e uomini, umani e non martiri della prole. Per favore, sdoganiamo la vulnerabilità degli adulti tutti, così che dai momenti complessi della vita i bambini li vedano acciaccati ma pronti a rialzarsi piuttosto che con le ginocchia sbucciate e un sorriso farlocco.
In questa sede l’argomento endometriosi non verterà sulle argomentazioni cliniche, perché internet ne è pieno e se stai leggendo questa pagina è probabile che tu possegga le competenze per fare una ricerca veloce.
Ho scoperto di avere l’endometriosi e altre robe poco piacevoli nel 2015, ma non starò a raccontare la mia avventurosa storia ginecologica che non si discosta poi tanto da quella di tante altre donne, perchè qui mi preme accantonare l’aspetto medico per dare degno spazio al risvolto psicologico di una malattia che solo negli ultimi anni ha iniziato ad avere il suo momento di celebrità che, si spera, conduca a maggiori studi e alla ricerca di terapie che vengano somministrate come cure e non come tentativi.
Ma dicevo.
Ricordo che dopo la diagnosi iniziai ad accumulare una serie di timori a cui veniva lasciato poco spazio. La portata della malattia sembrava non concedere ulteriori preoccupazioni oltre a quelle mediche: rischi di perdere organi e fertilità, è il caso di preoccuparsi delle tue paure?
Santi numi, certo che sì.
Sentivo il bisogno di riconoscere alle mie preoccupazioni la giusta dignità, eppure l’altrui apprensione lo percepiva se non come una futile preoccupazione, perlomeno come patimento secondario.
Chi vive l’endometriosi dall’esterno tende ad accantonare – vuoi per carente empatia vuoi, per come credo io, salvaguardia della propria salute mentale di fronte alla sofferenza di una persona amata – ciò che per lui è il superfluo, accogliendo gli aspetti più tangibili di una malattia invisibile: le manifestazioni del dolore, le cicatrici delle operazioni, l’infertilità o la sterilità sono gli elementi di più facile comprensione.
Ma gli effetti collaterali non prescindono la sfera psicologica, che anzi è simbiotica con la salute fisica.
Fino alla diagnosi non avevo mai considerato la questione figli. Avevo anagraficamente ventisei anni anni, mentalmente quindici di meno, i bambini mi avevano sempre scatenato una risposta di repellenza mista ad indifferenza per cui il problema, fosse anche solo per fantasticare, non si era mai posto.
Dopo la diagnosi la mia posizione non era cambiata, aveva piuttosto scomodato questioni mai valutate prima: il pianto di un bambino restava un suono indisponente e continuavo a non essere certa di voler donare al mondo un essere fatto al 50% della mia stessa ansia, tuttavia si era insinuata l’eventualità che a scegliere del mio futuro riproduttivo non fosse la mia volontà ma l’endometriosi.
A questa urticante consapevolezza si aggiunse un timore che – potrei sbagliare ma anzi no – coincise con il momento in cui tornai single: poteva la malattia precludermi una relazione? Non esiste articolo in cui non sia messo in risalto il duo endometriosi-infertilità, e se per me questo aspetto risultava marginale visto il mio istinto materno candidato protagonista a Chi l’ha visto?, per un eventuale partner le condizioni del mio apparato riproduttivo si sarebbero potute dimostrare di una certa rilevanza.
Un’eventualità scomoda che sentivo aleggiare su di me e che più volte mi ha fatta interrogare se e quando inoltrare il discorso con le persone che avevo cominciato a frequentare.
Mi è capitato di leggere online le risposte date ad una ragazza con l’endometriosi che ambiva ad un’esperienza lavorativa all’estero frenata solo dai limiti imposti dal dolore cronico causato dalla malattia.
La si spronava ad accettare per due ragioni: perché l’esperienza l’avrebbe distratta dal male fisico e per evitare il rimpianto futuro; ma in queste due valutazioni non veniva preso in carico il punto chiave: il fardello del dolore cronico. Distrarsi da una puntura di zanzara non è facile, immagina quanto possa esserlo non pensare ai morsi dell’endometriosi.
E sì, il pentimento per tutte le esperienze a cui si rinuncia è costante ma spesso accolto per il timore, ad esempio, di finire al pronto soccorso in un Paese straniero dove sarebbe necessario spiegare una malattia ancora poco nota e senza cure efficaci; ma anche dalla consapevolezza di non poter fare in leggerezza una semplice attività di vita quotidiana. Io non ho viaggiato per quasi due anni perché fare pochi metri acuiva l’incessante dolore al fianco destro con cui convivevo da che aprivo gli occhi il mattino a che li chiudevo la sera. Uno sforzo o un movimento improvviso, come fare le scale a piedi o starnutire innescavano fitte alle ovaie da paralizzarmi per qualche secondo.
L’endometriosi si sviluppa su due piani: prima fisico per evolvere in quello psicologico. È un legame indissolubile, i Sandra e Raimondo di una patologia.
Oggi mi sento schernire dopo aver visto crollare i ponteggi dei miei timori del passato.
“Te l’avevo detto” sottolineano guardandomi con il mio Piccolo Sabaudo in braccio, dimostrando in buona fede l’ennesima forma di usurpamento della rispettabilità del dolore che è stato. Hanno ragione, le cose hanno preso un’improvvisa piega per me inaspettata; ma è il senno di poi ad avere quella ragione, perché prima di tutto ciò che di bello è accaduto, l’inevitabile era accettare la scienza con le sue probabilità e statistiche.
Con questo penso che chi si è macchiato di poco riguardo sia stato maligno? No, forse un briciolo egoista. Senz’altro desideroso di alleviare i miei timori.
Credo che ridimensionare o trascurare la portata psicologica dell’endometriosi, così come di una qualsiasi malattia invalidante, sia l’arma più maneggiabile per chi la vive da vicino, perché combatte contro un nemico invisibile che richiederebbe un cospicuo armamentario ma è costretto a fronteggiarlo con uno scudo di ironia e sminuimento, unici strumenti naturalmente in nostra dotazione quando la sensibilizzazione sul tema è ancora misera.
In risposta a questo atteggiamento non è raro scontrarsi con un antipaticissimo ma liberatorio: “Tu non puoi capire” che, lo puoi immaginare, è la formula ideale per innescare tensione.
Ecco forse il senso di questo post, al di là della narrazione, può essere quello di promemoria per una mediazione tra due parti che, seppur diversamente, soffrono davanti al dolore.
L’endometriosi fa schifo, non facciamo schifo pure noi.
Osservi mai le vite degli altri?
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Vediamo se ci riesco.
Perché dall’ultimo post risalente a novembre ’20 ne ho scritti altri che temporeggiano in attesa di perfezionamenti che la procrastinatrice in me delega al “poi”.
Battere nero su bianco la vita ultimamente forse richiede meno impegno, provo a ripartire da qui.
Quindi, nell’ultimo anno:
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Gli racconterò che è nato dalla mia pancia.
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Un po’ li capisco, i no-vax.
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Si sta come d’autunno sul bidet il test di gravidanza.
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C’era una volta il brutto ceffo, quello che entrava in banca con le mani rintanate nel bomber nero e il cappellino calato sulla fronte.
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by Alice 2 Comments
Quando distribuivano l’istinto materno io mi divertivo guardando video di bambini che si fanno male.
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