Si sta come d’autunno sul bidet il test di gravidanza.
Il programma di quel giorno era alzarmi, fare il test (più per divertimento come facevo di nascosto quando ero piccola con le striscette per la misurazione dei chetoni nelle urine) e andare a prendere quello che sarebbe diventato colui con cui spartirò le gioie dei pannolini, dimesso in mattinata dopo un intervento.
Ricordo l’ingenuità del gesto di una che non ipotizzava di poter rimanere incinta.
Posso ancora assaporare la spensieratezza dopo il test abbandonato e scordato in bagno.
Da me ci si aspetta un dramma, un cambio di rotta. Magari un cane.
Non un figlio.
La mia autoconsiderazione non è molto differente, il che motiva la spensieratezza di quel gesto in una mattinata di fine autunno. Il Cluedo più avvincente della mia vita è stata la coda dell’occhio, nel riflesso dello specchio, mentre lavavo i denti, a ricordarmi di aver fatto un test lasciato orfano sul bidet da quasi un’ora.
Ero pronta ad afferrare lo stick da cestinare senza rammarico: ho l’endometriosi al IV stadio, adenomiosi, un mioma, aderenze, e la mia tuba destra può diventare compost per l’orto cittadino grazie ad un paio di salpingiti non diagnosticate; aggiungendoci la pillola smessa solo 31 giorni prima, le mestruazioni arrivate la settimana precedente (“Non sapevo di essere incinta” docet), e il mio proposito iniziale mirato più a convincere la ginecologa a procedere con l’operazione in seguito ai raccomandati “tre tentativi di concepimento falliti” che alla speranza di concepimento vera e propria, ecco la distaccata arrendevolezza con cui ho urinato su un bastoncino dal costo di una pranzo al Combal Zero.
Perché come direbbe Phil Dunphy, il segreto sta nell’abbassare le aspettative.
Cliffhanger.
Nessun luminare mi aveva preparata ad un positivo immediato. Qualche ginecologo non escludeva i miracoli, ma vista la cartella clinica e il mio tirannico pessimismo ero scesa a patti con numeri e statistiche.
Ripresami dallo sconcerto sono entrata in un Nirvana di convenienza: oscillando tra la gioia di aver avuto la meglio sulla malattia e il panico del “non erano questi i piani“, l’alternativa ad un attacco di panico era emulsionare tutte le emozioni.
Il primo pensiero è stato: PSICOLOGA.
Poi ho ricordato che il cosetto, seppur grande quanto mangime per volatili, era tanto mio quanto di un ragazzo dall’altro capo della città che in quel momento aveva come massima preoccupazione i tempi di recupero per poter tornare a giocare a calcetto il martedì sera; per cui mi sono attenuta all’assetto informativo standard “futuro padre-ginecologo-chi vuoi tu”.
Oggi lo sanno tutti. Lui, la ginecologa, parenti, amici, psicologa e vecchio compagno di scuola che non sentivo da due anni.
Le cose cambiano secondo i tempi necessari: giù nelle viscere sono iniziati mutamenti inevitabili che hanno sotterrato mesi di plank con una collinetta che viene quotidianamente maltrattata da arti formato mignon.
Su nella testa i ritmi sono intorpiditi. Mi ritraggo alla definizione di “madre” quando utilizzata teneramente nei miei confronti e ho conseguito una laurea in archeologia della locuzione per trovare alternative alla sentenza “Sono incinta“, ché un conto è pensarlo e un conto è concretizzarlo a parole.
Contavo di metabolizzare l’avvicinamento alla sfera materno/infantile, ambito dal quale ho sempre preso le distanze, con un approccio soft, limitandomi inizialmente alle informazioni derivanti dalle visite per far poi evolvere le conoscenze con qualche libro ed infine nuotando a cagnolino nel mare di scelte logistico/vezzose di tutine e passeggini.
Ma la pandemia è quel che ti accade mentre sei intento a metabolizzare una gravidanza, per cui sono stata bloccata come nella prigione del Monopoli a metà della fase due: sono relegata in casa con due libri, uno scritto da un pediatra nato negli anni ’20 e acquistato da mia madre nel 1988 (prima edizione: 1972), l’altro da un’ostetrica con una spiccata tendenza new age e un debole per gli archetipi.
Da entrambi ho tratto un paio di lezioni: la sempiterna evidenza che, indipendentemente dall’evoluzione di tecniche di addormentamento e stereo per rumori bianchi, un neonato è stato e sempre sarà portatore della triade caos-insonnia-escrementi; e sono convinta che il parto sia stato negli anni iper-medicalizzato fino a diventare un evento temibile, ma storie risalenti al tempo degli dei dell’Olimpo dei signori della guerra e dei Re che spadroneggiavano su una terra in tumulto (no, la storia di Xena non viene nominata, ma quella della Sirenetta di Andersen sì) non mi convinceranno a trovare somiglianze tra l’atto della nascita e un, cito testualmente, “incontro sessuale”.
Senz’altro due volumi utili a loro modo ma a base di informazioni prevedibili e mistificate che non hanno ingentilito la mia idea di parto.
Ho solo una certezza.
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