Ho le braccia macchiate di lividi. Mi disturbano quelli su polsi e mani: suggerisco sempre la vena nell’incavo del braccio sinistro ché pare un oleodotto, perché i prelievi sulla mano?
Cesare – come Pavese, non come Ramazzotti – piange per le coliche. Faccio oscillare la culla di vimini, quella che in origine è stata nido mio e poi di tutti i bambini della mia famiglia e quasi tre anni fa del mio primo figlio. Aggiungo una colonna sonora di veloci “sh” intermittenti che mi ricorda il coro delle cicale nella pineta al mare giù in Calabria.
Nove mesi fa, ma dovrei dire otto, non avrei pensato di ritrovarmi sul letto con un secondo figlio arrivato e nato inaspettatamente.
Ho capito – e qui ci vuole un trigger warning perché sfiorando i temi della fertilità e genitorialità sento di camminare sui carboni ardenti – che i figli si stabiliscono nel mio utero senza preavviso e con sorprendente facilità, tanto quando prendono il loro posto nel mondo percorrendo le vie più complicate. Cesare ha optato per la scorciatoia di un cesareo – nomen omen? – d’urgenza per distacco di placenta a 35 settimane, inconsapevole che ci fossero a repentaglio la vita sua e della sua incubatrice. La nostra prontezza di riflessi, o forse più l’emorragia che non lasciava dubbi sulla necessità di intervento immediato, ci ha salvato la vita dodici giorni fa. Ed eccoci qui, con le bracci livide per le decine di prelievi e sull’agenda un elenco di appuntamenti barrati perché non c’è stato il tempo di portarli a termine.
Sono destabilizzata, per cui mi legittimo dell’autoindulgenza sui fattori secondari che richiederanno tempo perché vengano processati. Al netto dell’assiomatico “l’importante è la salute” – sul serio va sottolineato? – sento l’insoluto di questa gravidanza. Mancavano 32 giorni. In 32 giorni un futuro umano può sviluppare quella forza fisiologica che gli permette di fronteggiare i primi tempi senza controlli ospedalieri frequenti. Le prime settimane di una famiglia con neonato dovrebbero essere a base di notti insonni, magliette sporche di rigurgito, déccolleté dolente ma che déccolleté!, zampilli di urina, carezze a faccini rugosi, baby blues, pianti, “No Piccolo Sabaudo che non lo buttiamo via Fratello”. E le nostre lo sono, nella sfortuna baciati dal miracolo della scienza. Ma gli appuntamenti gravidici barrati sulla mia agenda sono stati rimpiazzati da controlli pediatrici che sento appesantiranno i ricordi che saranno.
Avevo anche stabilito rituali preparatori non più fondamentali della ceretta all’inguine; l’utile di queste azioni dimorava nel grado di futilità, per far continuare a convergere l’Alice madre con l’Alice persona anche ad un passo dall’evento che avrebbe riportato per qualche tempo al potere la prima sulla seconda.
Invece il 30 giugno c’è stato quel pac nella pancia, che se mia madre non avesse raccontato della sensazione quando le si ruppero le membrane alla mia nascita, non so se mi sarei alzata dal letto per accertarmi che non mi si fossero rotte le acque, cambiando, come mi hanno ripetuto in ospedale, il nostro destino.
Sto vivendo quest’ultimo mese di (non) gravidanza con la sindrome dell’arto fantasma ma con un feto che non c’è più perché neonato sgambettante qui di fianco a me. Cerco di rassegnarmi alle aspettative tradite accogliendo le gioie di un controllo superato; non mi viene facile, ma c’è dell’impegno.
Mestizia a parte, ci stiamo riprendendo con inaspettata facilità: il mio cesareo, per quanto più d’urgenza del primo, mi ha lasciata meno dolorante e all’orizzonte non si prospettano attacchi depressivi; Cesare è nato grosso con una ragguardevole forza e un temperamento mite che in passato avevamo osservato solo negli altrui neonati; nota di merito al mio Piccolo Sabaudo che negli ultimi mesi ha dovuto accettare molti compromessi per non pesare sulle mie condizioni di gravida sofferente, e che sta accogliendo il fratello con diplomatico disinteresse e micro slanci di affetto.
In questo disegno che non rispecchia lontanamente i miei intenti, dopo lo scompiglio sto trovando una sorta di armonia.
Forse è come direbbe quell’altro Cesare. Prima di essere schiuma saremo indomabili onde.
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