Sono brava ad affrontare il lutto.
C’è chi fronteggia i cambiamenti con entusiasmo, chi accoglie i fallimenti con indulgenza.
Io so elaborare la morte, che non vuol dire provare distacco o indifferenza come sostengono alcuni. Tutt’altro: piango, mi dispero, piango ancora, crollo in una pozza di afflizione per giorni interi. Ho tuttavia una buona attitudine alla razionalità e alla ricerca di salvagente quotidiani: la prima mi aiuta a dare una collocazione alla tristezza dalla quale so di non poter scappare, prendendola di traverso per non farmi troppo male, come un’onda pronta a travolgere; a riportarmi a galla, oltre alla classica elaborazione del lutto, mi assistono i salvagente quotidiani, azioni dal forte potere distraente che oltre alla finalità consolatrice, ricordano quanto (non) vivere nel lutto sia irrispettoso nei confronti di chi non ha più l’opportunità di godere di quei momenti.
Due sabati fa è morto mio nonno.
Al mio capo ho scritto: “A causa della morte di mio nonno sono costretta a chiedere un giorno di permesso lutto”. A casa qualcuno mi ha consigliata di sostituire con: “Avendo perso mio nonno”.
Ho inviato la prima versione, perché non l’ho perso: so di trovarlo in una piccola urna nera vicinissima alla bara di mia nonna nella tomba di famiglia di un paesino alle porte delle Valli di Lanzo. Sulla lapide ci sono i loro nomi, al centro una foto in cui lei in piedi abbraccia di schiena lui seduto nel cortile della nostra piccola casa in montagna.
Dire che mio nonno è morto mi aiuta, poco alla volta, a realizzare l’accaduto.
Pensare che sia di nuovo con mia nonna e suo figlio, con l’anima o fisicamente, mi da sollievo.
Sono brava ad elaborare il lutto ma il cuore di marmo non esiste.
Da quando è morto ho riso, scherzato, mangiato fuori, atteso con impazienza il viaggio di agosto; una condotta che nel paese di mio padre verrebbe percepita come atto di vergogna suprema, perché il lutto è abito nero bagnato da pianti sgolati.
Domenica sera, seppur in un vestito lattescente e totale solitudine, ho provato la disperazione di una fine.
Al buio, seduta sulle scale nel cortile di casa dei miei. Il caldo era torrido, avvertivo un alito di vento solo per il profumo di basilico che si trascinava dietro.
Mio padre stava finendo di preparare cena, dalla cucina arrivavano le voci dei concorrenti di un gioco televisivo confuse insieme a quelle di mia madre, mia sorella e i nostri ragazzi. Mi trovavo esattamente sotto il balcone della sala in cui mio nonno era disteso. Le finestre sopra di me erano aperte ed improvvisamente la cascata di note di “Per Elisa” di Beethoven mi è crollata addosso; avevamo lasciato girare uno dei suoi cd perché non rimanesse senza musica classica, quella con cui ci ha cresciuti, e in quell’atmosfera che in altri momenti avrei ritenuto perfetta, ho realizzato che nella mia casa di sempre non sarei più stata accolta dalle melodie che erano il riverbero della presenza dei due pilastri canuti di casa dei miei, di casa mia.
Saper affrontare la morte non vuole dire proseguire impassibili.
Vuol dire ascoltare “Eine kleine nachtmusik” con il nodo in gola ma la volontà di tenere in vita la felicità ancorata alle sue note. I miei nonni hanno visto morire un figlio piccolo e un fratello giovane, eppure hanno continuato a vivere senza che questo precludesse il dolore di cicatrici mai chiuse. Ci hanno raccontato di mio zio mai conosciuto, biondo come me e pasticcione come mia sorella, e ricordato i viaggi in Africa nei primi anni ’70, in cinque su una piccola FIAT che ora non ci fideremmo neppure ad utilizzare per andare a fare la spesa.
Non ho più la mia nonna brillante e pacioccosa, e neppure quello scorbutico e intelligentissimo di mio nonno. Restano le loro ricette, le tradizioni e le memorie scritte.
Ma a tapezzare le pareti della mia testa è l’insegnamento che nessuna fine deve impedire nuovi inizi.
Perché la morte va osteggiata con la vita. Per noi e per chi ce l’ha insegnato.
Paola says
La vita è bella…….diceva sempre!
Alice says
Già 🙂