Qualche settimana fa, prima della conferenza fallocratica di Sanremo, stavo ascoltando il podcast creato da uno psicoterapeuta.
Ne ascolto pochi, di podcast, principalmente perché vivo sovrappensiero, di conseguenza finisco spesso per escludere l’audio riflettendo ad esempio su dove avessi acquistato quella carta igienica così duratura (storia vera).
Quel podcast faceva eccezione per la vastità di temi affrontati in chiave psicologica. Lo trovavo interessante.
La puntata in questione era per l’appunto una “psico-recensione” sul documentario di Chiara Ferragni, o meglio: “della moglie di Fedez“, come è stata presentata dal creatore dello stesso podcast al minuto 00:19.
Ho stoppato per calarmi in uno stato di immedesimazione.
Se io a vent’anni fossi stata bella, alta e bionda e dotata di ambizione, coraggio e lungimiranza da creare un fashion blog che nel giro di qualche anno mi avrebbe portata ad essere nominata su Forbes per il mio fatturato da 8.000.000 di dollari; se fossi stata tanto piacente quanto buffa ed autoironica da diventare un personaggio seguito in tutto il mondo; se prima dei trent’anni avessi creato una realtà capace di mantenere me e la mia intera famiglia nello sfarzo più lussuoso, ad uno che mi definisce “moglie di Fedez” risponderei con un inevitabile: EH NO CAZZO.
Ci si infervora per la (imbarazzantissima) conferenza stampa di Amadeus a Sanremo quando banalmente ogni giorno decine di donne si identificano su Instagram come proprietà altrui (“Nilde: Moglie di Agatino, Mamma di Simone Pio”), forse nostalgiche del patronimico dell’Antica Grecia.
Ma la differenza si fa nella piccolezza del quotidiano, non solo organizzando complotti anti Festival di Sanremo.
Smettere di usare (donne e uomini indistintamente) il termine troia e tutte le sue declinazioni per una ragazza sessualmente libera, disinteressata e consapevole, ad esempio: ogni giorno paladine del femminismo prendono a mitragliate anni di rivoluzione sessuale battezzando con appellativi poco gratificanti ragazze dalla condotta non puritana o poco perbenista.
Ed il “Va be’, ora non si può neanche più scherzare” non è una giustificazione: le parole sono fondamentali perché la loro accezione è duttile.
“Troia” in origine era il termine utilizzato per indicare la femmina del maiale destinata alla riproduzione (vedi Treccani). Il valore spregiativo è stato aggiunto in seguito nel cosiddetto senso figurato.
Siamo noi a decidere quale risonanza dare a termini e concetti. Da “troia” in quanto maiale per la riproduzione a “troia” come donna che lascia un ragazzo perché non più innamorata è un attimo.
Certo, da mezzi fruibili come quello televisivo ci si aspetta maggiore etica e consapevolezza, ma se questi stessi valori mancano nella propria quotidianità la pretesa che arrivino da un presentatore televisivo o da uno psicoterapeuta è utopica.
È giusto brandire il telecomando a nome dell’equità di genere nelle serate del Festival di Sanremo, ma lo è molto di più partecipare ad un cambiamento il resto dell’anno.
Se le persone, giustamente indignate dalle sparate ignoranti e maschiliste di Amadeus, non perpetrassero la stessa pecca con commenti del medesimo calibro sotto video di pagine Instagram come Very inutile people, forse un passo in avanti potremmo smuoverlo noi senza attendere che un conduttore di programmi a premi inciampi con un discorso da tv anni ’60.
Se non vogliamo essere una bella giostra luminosa non valutiamo le/gli altre/i come tali.
Se vogliamo un’identità lontana dal patriarcato non stiamo zitti (donne e uomini) davanti ad ogni forma, fosse anche la più sottile, di questo.
Il festival di Sanremo farà rumore per qualche altra settimana, ma quel tipo di ignoranza resterà incastrata nel parlato ordinario se non ci sarà un impegno del singolo per la rieducazione di tutti.
Possiamo scandalizzarci per lo scarno dizionario di Amadeus limitato all’aggettivo “bellissima”, ma fin quando esisteranno ancora vocabolari che riportano tra i contrari di “maschio” “femmina, debole”, noi donne resteremo sì un passo indietro, ma rispetto alla conquista della parità di genere.
E a quel punto la carta igienica durevole che ho acquistato chissà dove ci tornerà utile per piangere.
Anna says
Gran bel discorso, hai ragione. Non do facilmente della troia a qualcuno, ma tempo fa una persona che seguivo mi invitò a riflettere sull’uso di questa parola da parte di un’altra donna e da allora ci faccio ancora più attenzione. La strada è ancora parecchio lunga, temo.
Alice says
Lo è perché è un concetto radicato e istintivo dal quale si è diffuso lo stereotipo.
Per questo non trovo condannabile nessuno se disposto a rifletterci su.