Gli racconterò che è nato dalla mia pancia.
Si dice così, ai bambini, per la vergogna che pesa come divieto sacrale sulla sfera riproduttiva.
Con il Piccolo Sabaudo (anagraficamente Noah) pensavo avrei utilizzato la sincerità perché le letture trangugiate in gravidanza mi hanno insegnato che il bambino è competente e che le bugie non sono montessoriane, per cui ortaggi, insetti impollinatori o chiarimenti approssimativi non sarebbero la mia scelta per spiegare la maternità ed il suo arrivo nel mondo.
Ma gli racconterò che è uscito dalla mia pancia perchè è così che è stato.
Chi ha definito il parto lo spettacolo della nascita deve aver assistito ad un cesareo.
Circondata da sconosciuti attendi l’arrivo del protagonista finché non viene alzato il sipario, un telo verde che fino a cinque minuti prima non era previsto, ed ecco che inizia lo show.
Il giorno in cui è nato il Piccolo Sabaudo, dopo i controlli l’hanno adagiato su di me; il suo corpo spuntava dalla mia spalla, la testa sul mio petto. Affamato si è attaccato al mio mento e ha continuato a succhiarlo, piccolo perseverante. Dalla posizione a croce del lettino operatorio che suggerisce la passione di un parto solitario, mi hanno liberato il braccio destro e ho affondato per la prima volta il dito nella sua guancia. L’ho accarezzata tutto il tempo che ci hanno concesso, tanto da lasciargli un segno rosso sulla pelle ancora indifesa, il primo suggello del nostro legame.
Ho accettato di separarmi da lui per fargli conoscere il suo papà, perché un cesareo d’urgenza apre in due una donna ma lascia solo un uomo. Mentre sentivo tubi aspirare cose dal mio ventre immaginavo il loro incontro e, forse sotto l’effetto della morfina, sentivo rimbombare nella testa motivetti bizzarri (“se prima eravamo in due a ballare l’hully gully, adesso siamo in tre a ballare l’hully gully”).
Flashforward ad oggi.
Dopo due mesi e mezzo vivo nella contraddizione: sono felice ma piango, innamorata ma desiderosa di solitudine.
Non riesco ad immaginare la mia vita senza il Piccolo Sabaudo ma sento la mancanza della libertà del “prima di lui”.
La verità è che la maternità mi calza un po’ stretta, saranno anche quei chili della gravidanza che devo ancora perdere.
Tutto deve rialzarsi – l’umore e la pelle – tutto deve assestarsi.
Mi dicono che ci vuole tempo ma l’impazienza amplifica le giornate e la lista di cose che inseguo finendo per rinviarle.
Cerco di essere indulgente, con me e i due coinquilini del mio cuore, guardando avanti per accettare la fatica dell’oggi. Ogni tanto inciampo nelle vecchie foto e quella libertà che ora manca brucia come tagli sulle ginocchia.
So che è questione di taratura: dobbiamo ricalibrarci, convertire il due in tre, un Tanalocale in un trilocale.
Stiamo componendo una nuova armonia che spero un giorno si trasformerà in valzer austriaco.
Ma, almeno per ora, noi tre balliamo l’hully gully.
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