Ogni mattina una mamma si sveglia e sa di dover correre più veloce dello stereotipo per sopravvivere al carico mentale. Ogni mattina un papà si sveglia e sa che dovrà sbracciarsi per essere tenuto in considerazione.
C’è un abuso della parola “mamma” che mi fa ribollire il sangue e ruotare la testa come Regan MacNeil quando riceve la benedizione durante l’esorcismo. Mi provocava un fastidioso prurito mentale ben prima della nascita del Piccolo Sabaudo e con il suo avvento si è evoluto in nevrosi quando ho iniziato ad interessarmi alla puericultura, scoprendo che i riferimenti smodati alla componente genitoriale femminile non sono (solo) causati dalle famiglie stesse, ma anzi vengono rafforzati dall’abuso fatto da chi nel settore ha una voce, come pediatri o riviste redatte da professionisti della prima infanzia.
Non credo esista mamma che non si sia sentita investire almeno una volta del carico esclusivo nella gestione dei figli. Come direbbe la madre di Manzoni, dalle alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, si affida tutto alla mamma seppur sia fatto osceno.
Nonostante possiamo far rappare un dispositivo elettronico chiamato Alexa, la mentalità sociale legata alla crescita di un figlio si basa ancora sul presuppostoconcetto che, in una coppia madre-padre, le capacità genitoriali della donna superino quelle dell’uomo, o che sia quest’ultimo a vestire i panni del genitore irresponsabile. E attenzione che non mi riferisco alle circostanze nella formazione e crescita di un bambino che, al netto del supporto psicologico fondamentale del papà, richiedono il monopolio della mamma come accade durante la gestazione o l’allattamento al seno; ma di tutte quelle capacità d’azione sviluppate e ottimizzate con la pratica, quali possono essere il cambio del pannolino o la stimolazione ludica del bambino.
Quando ero incinta pensavo non avrei sofferto del gigantesco carico mentale della parola mamma. Ero ben consapevole degli ambiti in cui sarei stata insostituibile e che il resto avrebbe subito una ripartizione del 50%, variabile al bisogno, tra me e il padre del Piccolo Sabaudo. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il sistema italiano ahinoi patriarcale con cui siamo cresciuti, e più volte di quante vorrei ammettere mi sono impantanata nel dubbio che la mia condotta non fosse all’altezza di una mamma, sebbene non abbia mai subito discriminazioni. Il fatto è che la “condotta” era la cena in centro a un quarto d’ora da casa con un’amica, o accogliere un sabato pomeriggio libero invece che in famiglia, non esattamente la vacanza improvvisata a Cancun a far serata al Cocobongo. Quelle stesse evasioni del padre di mio figlio che non hanno mai fatto dubitare del suo buon operato di papà.
Ci vorranno ancora anni – ad oggi oserei dire molti DECENNI – prima di poter raggiungere una cultura familiare e sociale senza differenze di ruolo basate sul sesso dei componenti, ma a quel traguardo ci si arriverà con piccole accortezze che siano fondamenta per ciò che costruiremo.
Il mio umile contributo è quello di togliere un po’ di carico mentale alla parola mamma: ci si rivolga più ai genitori, che alle sole madri, per dare lo stesso valore ai padri che fanno i padri e per dare uno scappellotto a quelli che si crogiolano nei sospirati eh ma la mamma. Scandalizziamoci per una madre lavoratrice con vita mondana quanto per un padre lavoratore con egual socialità; ma che dico, scandalizziamoci meno per madri e padri che cercano di tenere in vita il loro essere donne e uomini, umani e non martiri della prole. Per favore, sdoganiamo la vulnerabilità degli adulti tutti, così che dai momenti complessi della vita i bambini li vedano acciaccati ma pronti a rialzarsi piuttosto che con le ginocchia sbucciate e un sorriso farlocco.